Racconto

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Sarsiccia
view post Posted on 5/9/2015, 12:55




«Sciò! Via di qui!» urla una voce imperatoria. Mi allontano dai fornelli che Madre sta maneggiando con mani esperte e mi rintano in fondo alla cucina. C'è un così buon odore di cibo... Non mi importa se non posso mangiarlo, mi basta sentirne il profumo e sognare quando ancora avevo la pancia piena tutti i giorni.

Madre ha visto che sono ancora qui. Non ci voleva. Cerco di appiattirmi ancora di più contro l'intonaco bianco e sudicio della cucina, ma senza risultato.

«Ti ho detto di filare, bestia affamata che non sei altro!» continua la donna agitando il mestolo. Dal mestolo cola qualcosa, del brodo credo. Non mangio decentemente da due giorni, ormai. La fame si fa sentire. C'era così tanto cibo, prima del ghetto... Ora non c'è più quasi niente nemmeno per gli umani, figuriamoci per un gatto. Neanche in strada c'è più nulla, ormai. Se esco rischio come minimo di ritrovarmi in una pentola a pressione in pochi minuti. Meglio rimanere tappati in casa, e mangiare gli avanzi. Quando ce ne sono.

Madre fa un passo verso la scopa, e mi decido a scivolare dalla porta socchiusa. Stupida umana. Non mi voleva, e lo so benissimo. Nessuno qua dentro mi voleva quando Lentiggini mi raccolse dalla strada, ma hanno dovuto arrendersi alla mia presenza, piano piano. Ciò non vuol dire però che mi abbiano accettato. Madre si vendica ancora, non dandomi da mangiare, mentre Padre mi riempie di calci non appena sono a portata di mano. Solo Lentiggini è buona con me. E io rimango qui solo per lei, lo sa. Preferirei mille volte essere in una pentola che nella stessa casa di Madre. Ma preferisco mille volte dover vivere insieme a quel mostro che stare lontano dalla mia piccola Lentiggini.

Mi ritrovo nel minuscolo corridoio che porta da un lato alla latrina e dall'altro alla Stanza Dei Letti. Provo a spingere la porta d'ingresso - potrei sempre sgranchirmi le gambe sul pianerottolo - ma è irrimediabilmente chiusa. Miagolo piano, sperando che qualcuno venga ad aprirmi, e raschio per un po' sul legno rovinato. Niente.

Strisciando contro il muro fuligginoso e imbrattato del corridoio scivolo fino alla Stanza Dei Letti. La latrina è un posto che voglio evitare, puzza e basta, lo dicono anche Madre e Padre. La porta della Stanza Dei Letti è socchiusa. Entro piano.

Padre non c'è, come al solito. Lentiggini è seduta sul suo letto, e guarda nel vuoto. Ha solo una piccola brandina a un lato della stanza, mentre la maggior parte dello spazio è occupato dal divano-letto dove dormono Madre e Padre. C'è poi un piccolo tavolino traballante in un angolo, con tre sedie di legno vecchio e marcio, dove mangia tutta la famiglia.

Lentiggini non mi ha visto, e continua a girarsi tra le dita una treccina di capelli rossicci. È la sua principale occupazione, da quando ci hanno trasportati nel ghetto. Fissare nel vuoto con lo sguardo perso.

Aveva un sacco di amici, solo qualche anno fa. Me lo ricordo. Era quando ancora abitavamo nella Casa Grande. Lentiggini aveva una cameretta tutta per sé, con le pareti dipinte di rosa confetto, una libreria piena di libri che voleva leggere quando sarebbe stata più grande, un letto grande e morbido, una scrivania che usava solo per disegnare, un sacco di giocattoli. Sua madre la accompagnava tutti i giorni alla Scuola, e lei ritornava sempre felice. Chissà come si divertiva. Spesso quando tornava a casa c'erano con lei delle amiche che si era fatta là, e passava con loro tutto il pomeriggio a giocare con delle curiose mini-umane di stoffa o altri materiali (com'è che le chiamavano? bambole?) in case in miniatura. Parlavano di bambini, di cosa avrebbero fatto una volta grandi, di cosa sarebbero diventate e cosa no. Avevano, in generale, un sacco di sogni. Lentiggini ne aveva più di tutte. Il ghetto l'ha spenta.

Un giorno una sua amica - una bambina grassoccia, con i capelli di un orribile biondo platino e gli occhi chiari - andandosene le aveva detto, imbarazzata:

«Hannah, mio papà ha detto che non posso più venire da te, mi dispiace.»

Lentiggini aveva voluto sapere perché, ma Bionda Grassoccia non voleva rispondere, e si limitava a scuotere la testa con fare rassegnato, rossa in viso. Sembrava che nemmeno lo sapesse. Alla fine aveva sputato, indecisa:

«È perché sei ebrea. A mio papà non piacciono gli ebrei. Dice che noi siamo ariani e che perciò non posso giocare con te.»

Lentiggini non sapeva cosa voleva dire ariano, ma nemmeno Bionda Grassoccia, e così, dopo una serie di sguardi imbarazzati e dubbiosi, si erano accomiatate, ripromettendosi di vedersi a scuola. Le altre amiche di Lentiggini erano venute a trovarla ancora per un mese o due, poi, piano piano, quasi impercettibilmente, avevano cominciato a declinare i suoi inviti uno dopo l'altro, con scuse sempre più improbabili. Un giorno, delle dieci amiche di Lentiggini ne era rimasta solo una.

«Io non ti abbandonerò mai, Hannah.» le aveva promesso. «Mio papà sta con gli ebrei, possiamo restare amiche per sempre.»

«Grazie, Jude, significa molto per me.» aveva risposto Lentiggini, sorridendo.

Quella bambina non era più tornata. Madre ha detto che si è trasferita con la sua famiglia in un posto chiamato Francia. È stata, a mio parere, sleale. Aveva promesso, e non ha mantenuto.

Dopo che anche la sua ultima amica l'aveva abbandonata, Lentiggini tornava a casa e fissava il vuoto, desolata. Ogni tanto mi raccontava le sue giornate - lo fa ancora adesso, è meraviglioso sentire il suono della sua voce, anche se così fredda e vuota.

Mi raccontava che il suo maestro aveva spostato il suo banco in un angolino della classe, in fondo, insieme a quello di un'altra sua compagna, e aveva cominciato ad ignorarla. Non la chiamava più quando alzava la mano, non le chiedeva più di correggere gli esercizi, non le parlava più, sembrava che l'avesse dimenticata. Se prima Lentiggini era la prima della classe, ora sembrava che non ci fosse nemmeno più, in classe. Diceva anche che il maestro le dava sempre voti più bassi di quando meritasse: anche se non faceva nessun errore, non le metteva mai il massimo. Gli altri bambini, invece, ricevevano dal maestro un sacco di attenzioni e prendevano sempre voti altissimi, anche quando sbagliavano più di lei.

Anche gli altri bambini erano un problema per Lentiggini. Mi raccontava, disperata, che nessuno voleva più giocare con lei, e non capiva perché. Erano sempre stati tutti amici, cos'era successo? Lentiggini era una bambina solare, allegra e sincera, non sapeva nemmeno cosa volesse dire farsi dei nemici, e ora le sembrava di stare antipatica a tutti per un motivo a lei sconosciuto. Qualcuno le aveva detto che era perché era ebrea. Lentiggini non capiva. Sapeva che gli ebrei andavano a pregare il sabato, in una specie di chiesa speciale (sinagoga, mi diceva che si chiamava), e che gli uomini portavano dei buffi cappelli tondi e la barba. Ma la famiglia di Lentiggini non è religiosa, quindi lei non capiva cosa avesse di diverso. Conduceva esattamente la stessa vita di tutti gli altri suoi coetanei "ariani", rifletteva tra sé e sé, assaporando piano quella parola di cui non conosceva nemmeno il significato. Si guardava allo specchio, e vedeva riflessa una bambina esattamente come le altre. Aveva anche pensato che tutto quell'odio potesse essere per via dei capelli rossi e delle lentiggini, ma la sua compagna esclusa insieme a lei non aveva né gli uni né le altre, quindi non sapeva proprio cosa pensare.

Mi ricordo anche di quando era tornata a casa in lacrime e, tra un singhiozzo e l'altro, aveva raccontato a Madre che, quando aveva chiesto spiegazioni al maestro riguardo al suo voto così basso nonostante non avesse sbagliato nulla, lui si era limitato a sputare ai suoi piedi e a guardarla con un'espressione di puro disprezzo.

Quel giorno, di fronte alla disperazione della figlia, Madre aveva promesso di andare a parlare con il maestro di Lentiggini il giorno seguente. Ricordo che io, sdraiato mollemente sul divano ad ascoltare la conversazione, pensai che non ci sarebbe andata, e invece ci andò. Tornò infuriata, con le labbra serrate. Aveva la stessa espressione di quando trovava il divano graffiato dai miei artigli, o di quando Lentiggini si dimenticava di darmi da mangiare e toccava a lei farlo. Alla bambina disse solo di non preoccuparsi, che il maestro era uno stupido e che lei era una bambina esattamente come le altre, ma di non prendersela troppo se era ingiusto con lei.

«Il mondo sta diventando folle, Hannah, non possiamo farci nulla. Tu ricordati solo di essere forte, e di non lasciarti mettere i piedi in testa. E soprattutto, diffida dei folli.» aveva detto.

Più tardi però, acquattato davanti alla porta di Madre e Padre, avevo sentito la donna apostrofare il maestro «un altro di quegli imbecilli nazisti». Il mondo stava diventando folle, avevano concordato entrambi.

Pochi mesi dopo, Lentiggini aveva dovuto cambiare scuola. Ricordo che all'inizio era entusiasta, felice come non la vedevo da troppo tempo.

«Ti rendi conto, Gatto? Una scuola nuova!» mi ripeteva euforica mentre io, acciambellato pigramente sul mio cuscino rigorosamente color confetto, di fianco al suo letto irrimediabilmente rosa, la ascoltavo a metà, sonnecchiando.

«Nella nuova scuola non sarò più seduta in fondo alla classe, sai? Saranno tutti ebrei come me. È fantastico! Non ci saranno più bambini che non vorranno più giocare con me, saremo tutti uguali. Non vedo l'ora. Il maestro potrà chiamarmi quando alzerò la mano e non mi tratterà più male. Avrò anche un sacco di nuova amiche, e non passerò più i pomeriggi da sola come adesso. Sarà bellissimo, ne sono sicura.»

Nei giorni seguenti il suo entusiasmo era andato via via scemando. Tornava a casa sempre da sola, mi prendeva in braccio e, accarezzandomi piano, come solo lei sa fare, cominciava a raccontarmi le sue giornate, ma erano racconti completamente differenti da quelli di prima.

«Sai, Gatto, la nuova scuola non è tanto bella. L'intonaco è triste, tutto grigio, e poi cade dai muri. I banchi sono tutti rotti.» mi diceva tristemente. La sua voce, prima piena di vita nel raccontarmi le sue innumerevoli avventure, ora era piatta e scialba. I suoi giorni si susseguivano monotonamente vuoti e insulsi, e così i miei.

Ogni tanto Lentiggini mi raccontava anche che la gente, per strada, la scherniva per la stella che portava cucita sugli abiti. Lentiggini non aveva mai provato la sensazione di essere diversa, e ora quell'enorme consapevolezza la stava schiacciando sotto il suo peso ingiusto.

Poi ci siamo trasferiti nel ghetto, e Lentiggini è completamente crollata. Ha perso la gioia di vivere. Madre continua a dire che la colpa è tutta di un tale Ittla, o Ittler, non ho capito bene. L'ha nominato molte volte negli ultimi anni. Sembra che sia tutto colpa sua, anche le piccole cose su cui, secondo me, nessuna persona può avere nessuna influenza. Padre perde il lavoro? Colpa di Ittler. Dobbiamo trasferirci in una casa più piccola? Colpa di Ittler. Lentiggini non ha più amiche? Colpa di Ittler. Lentiggini deve cambiare scuola? Colpa di Ittler. Non c'è più niente da mangiare? Colpa di Ittler. Madre non può più entrare in certi negozi? Colpa di Ittler. La gente prende in giro Lentiggini per via della stella? Colpa di Ittler. Mi chiedo cosa abbia fatto di male questo poveraccio per meritarsi tutta la rabbia di Madre, che non è cosa da poco, come ho imparato.

Nel frattempo, Lentiggini continua a guardare nel vuoto, arrotolandosi i capelli, e le sue giornate sono tristi e vuote.

Salto sulla sua brandina e mi acciambello accanto a lei, strusciando il muso contro la sua gamba. Le piace quando faccio così, lo so benissimo. Per lei è la prova tangente che, in fondo in fondo, ci tengo a lei. Lentiggini infatti sorride e mi accarezza piano dalla testa alla coda. Adoro quando fa così. Lo sa.

«Sai, Sarah ha smesso di venire a scuola.» mi dice, apparentemente sovrappensiero «Non la vediamo più da un mese, ormai. Anche Angela e Rolf. Hanno smesso di venire tutti lo stesso giorno. Non è strano?»

Miagolo. In realtà non me ne frega nulla se i suoi amici smettono di venire a scuola, ma di Lentiggini mi importa, e se lei è dispiaciuta lo sono anche io.

«Hannah, è pronta la cena!» grida la voce stridula di Madre dall'altra stanza del minuscolo bilocale.

Lentiggini alza la testa, smettendo di accarezzarmi, vagamente dubbiosa.

«Non aspettiamo papà?» chiede urlando ma senza alzarsi dalla brandina.

«No, a quest'ora dovrebbe essere tornato già da un pezzo, l'avranno fermato per spalare la neve. Probabilmente tornerà verso mezzanotte.» risponde Madre con lo stesso volume dalla minuscola cucina. Sembra quasi seccata dalle domande di Lentiggini, come se lei non dovesse interessarsi al perché ogni tanto Padre torna tardi dalla fabbrica dove lavora - prima lavorava da un'altra parte, secondo Madre aveva un lavoro molto più prestigioso, ma ora, sempre "per colpa di Ittler", si ritrova a fare quello che secondo lei è un lavoro molto umile e inadatto al tipo di persona culturalmente elevata che è Padre. Io penso semplicemente che siano discorsi inutili che non portano da nessuna parte.

«Perché lo fermano per spalare la neve?» chiede ancora Lentiggini.

«Non lo so, amore, adesso vieni qui ad aiutarmi a portare i piatti.» dice Madre, mentre dalla cucina comincia a salire il rumore delle stoviglie che cozzano l'una contro l'altra.

Lentiggini mi prende delicatamente in braccio e mi appoggia a terra, poi si alza anche lei. Esce dalla stanza e ritorna poco dopo con Madre e un piatto di brodo tra le manine esili. Si siede in silenzio al piccolo tavolino sgangherato e comincia a mangiare. Io scivolo sotto la sua sedia e lambisco la sua gamba con la coda, al che lei mi guarda, sorridendo appena.

D'un tratto, dei bruschi colpi alla porta interrompono il piacevole silenzio familiare che si era formato nella stanzetta.

«Aprite, luride canaglie!» grida una voce maschile e roca.

Madre si alza, irrigidita, gli occhi a palla. Camminando lentamente si alza e si dirige verso la porta d'ingresso. La seguo, strisciando lungo la parete. Con mano tremante prende la chiave di casa e la infila dentro la toppa con una lentezza e un'indecisione esasperanti, mentre fuori i colpi si fanno più insistenti.

Al di là della porta ci sono due uomini, entrambi giovani, sulla trentina, con un'uniforme di un colore indefinito tra il beige e il verde muschio. Madre li guarda con il terrore dipinto sugli occhi, mentre uno dei due grida qualcosa e la spinge contro il muro.

«Chi c'è in casa, donna?» chiede l'altro guardandola dall'alto in basso. Dalla Stanza Dei Letti Lentiggini non dà segni di vita. Probabilmente anche lei è spaventata.

«Mio marito... è in cucina.» sussurra la donna balbettando. Padre? Non è ancora tornato, sarà a spalare la neve. Non so cosa si stia inventando Madre, o cosa speri di cavarne.

I due in uniforme seguono Madre nella minuscola cucina, mentre Lentiggini apre guardinga la porta della Stanza Dei Letti. Ha paura.

«Cosa ti inventi, lurida bugiarda? Qui non c'è nessun uomo!» grida uno dei due soldati, irato. Si sente uno sparo, un urlo soffocato, un tonfo, stoviglie rovesciate a terra. Lentiggini sussulta.

«Magari c'è qualcuno nell'altra stanza, Hans. La donna non aveva motivo di mentire se non per coprire qualcun altro.»

L'altro soldato sembra pensarci un po' su.

«Hai ragione. È che questo ebrei mi fanno sempre uscire dai gangheri, con il loro meschino attaccamento alla vita. Sarebbero veramente da ammazzare tutti. Dài, andiamo.»

Passi pesanti verso la porta della cucina. Lentiggini spalanca la porta della Stanza Dei Letti, poi quella d'ingresso, e comincia a correre, in una fuga precipitosa e disordinata. Io schizzo giù con lei.

Avrebbe potuto anche andarci bene, se Lentiggini non avesse fatto sbattere la porta d'ingresso. A quel punto uno dei due soldati - il più sveglio, evidentemente - sentendo i passi frettolosi lungo le scale ricollega i pezzi e, imbracciando il fucile, grida all'altro:

«Sta scendendo le scale, Hans! Chiunque sia, io lo rincorro, tu stai appostato alla finestra. Lo prenderemo, quel bastardo figlio di puttana!»

Passi pesanti dietro di noi sulle scale. Lentiggini è rossa in viso e ansima. Non fa per lei scappare. Sconsideratamente, esce dal portone principale. Un proiettile la raggiunge dopo pochi secondi, secco e preciso, e Lentiggini cade a terra senza un lamento, morta.

Il soldato esce dal palazzo fatiscente, si avvicina al piccolo corpicino inerte e lo scuote con un piede.

«Era una bambina, Hans!» grida al compagno appostato alla finestra «Comunque, adesso è morta. Possiamo procedere, aspettami che torno su.»

Silenziosamente scivolo vicino a Lentiggini, che giace riversa sul cemento rovinato di quel vicolo del ghetto. Mi accoccolo vicino a lei e con il muso cerco di sollevarle il viso. Lei non si muove. La mia Lentiggini è morta. Non si sveglierà più. Miagolo piano, cercando di muoverla insistentemente con le zampe. Non può essere. La mia Lentiggini, così vitale nella sua tenera ingenuità, così forte nonostante tutto. Non può essersi spenta così all'improvviso, per un motivo così banale. Un proiettile sparato da una finestra non è cosa con cui puoi uccidere una bambina, soprattutto Lentiggini.

I gatti non piangono. Mi acciambello accanto al suo corpo non ancora freddo, tremando per il vento gelido che soffia per le strade del ghetto.

«Ehi, Hans, guarda, c'è anche il gatto!»

I due soldati sono di nuovo affacciati alla finestra. Uno sta fumando una sigaretta. Sento l'odore del fumo arrivare fino in strada.

«Dove? Ah, eccolo, lo vedo.»

Il soldato che fuma sputa giù dalla finestra.

«Che tenero, non trovi?»

«È solo un gatto ebreo, avanti. Rimaneva perché gli davano da mangiare.»

«Però è tenero, secondo me.»

«Sì, talmente tenero che scommetto il rancio di stasera che riesco a centrarlo da qui con un colpo di fucile.»

«Non ce la farai mai.»

«Io dico di sì. Scommettiamo?»

«Scommettiamo.»

I due uomini si danno la mano. Il soldato imbraccia il fucile, prende la mira.

Uno scoppio, un sibilo. Un dolore acuto da qualche parte dentro le costole.

Il nulla.
 
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